Vatican and canon law

Pro Iure patrio stamus

Pensieri e Parole

-I nostri superiori […] non è che cerchino le colpe della popolazione, ma vengono attratti dalle colpe: è così che dice la legge. E mandano in giro noi guardie. Questa è la legge; come ci potrebbe essere un errore?
-Questa legge non la conosco,- obiettò K.
[…]
-Hai visto, Willem? ammette di non conoscere la legge, e insieme dice che è innocente.-

Sono le parole di Joseph K, che nel celeberrimo romanzo di Franz Kafka, si ritrova imputato in un procedimento senza neppure comprendere quali siano le imputazioni. Quel testo Kafka lo scriveva un anno dopo che nel Regno d’Italia venisse approvato il codice di procedura penale Aprile-Finocchiaro.  Quello stesso codice, oggi, è in vigore nello Stato della Città del Vaticano ed è l’insieme di norme che guida il processo penale nello Stato in cui il Pontefice è sovrano assoluto. 

Il tribunale dello Stato

Una corte che negli anni si occupata di questioni prettamente bagatellari che non hanno mai attirato l’attenzione di nessuno: furti nei musei vaticani, spaccio di droga, peculato e poco altro. Nel 2012 questo stesso tribunale divenne attrazione per migliaia di giornalisti che vedevano andare a processo il maggiordomo di Benedetto XVI, il quale era accusato di aver trafugato documenti dalla scrivania del Pontefice. Allora, il tribunale era presieduto dal prof. Giuseppe Dalla Torre, profondo conoscitore del diritto vaticano, del diritto canonico e dello stesso funzionamento dello Stato. Il processo durò una settimana. Le udienze erano caratterizzate da momenti di tensione anche per la natura dei reati contestati ma, quando il presidente decideva, vi era un profondo rispetto e le difese sapevano che quella decisione era corretta, ponderata, fondata sul diritto. Stessa cosa accadde con Vatileaks 2, lunghe discussioni anche per il coinvolgimento di alcuni giornalisti ma quando Dalla Torre chiamava gli avvocati in ufficio, spiegava le motivazioni delle decisioni prese, tutti le rispettavano perché consapevoli della natura di quanto veniva stabilito. Profondo amore per lo Stato, per il Papa e per il diritto trapelavano da ogni sentenza di quell’uomo, che oggi purtroppo piangiamo. 

Oggi, oltre Tevere, fra i diversi procedimenti vi è quello soprannominato Sloane Avenue. Molti sono convinti sia l’unico. Addirittura, Vatican News pubblica gli articoli inerenti a questo procedimento con tag “Processo vaticano” come se vi fosse solo questo in tutto lo Stato. Ma è chiaro che il problema è sempre e soltanto che chi scrive questi articoli, chi parla di queste questioni non vive la realtà di questo micro-stato che è del tutto peculiare. 

Il processo sul palazzo londinese

Dal primo momento, oltre Tevere, ci siamo resi conto che questo processo sarebbe stato ben diverso dagli altri. Perché? Per come è nato. Mai nella storia dello Stato era accaduto che l’agire del Promotore di Giustizia fosse guidato da alcune “leggi segrete” che non erano conosciute neppure da chi nella Città Stato ci vive. Quattro rescritti, noti solo al Sovrano e alla pubblica accusa, hanno permesso l’attività istruttoria. Grazie a questi “atti speciali” il Pontefice ha ritenuto di dare facoltà altrettanto straordinarie agli investigatori. Del resto, pochi conoscono la parte di Francesco legislatore perché nel cattolicesimo odierno a pochi interessano le norme. Ci sono addirittura presbiteri che non conoscono le procedure che si applicano per le nullità matrimoniali o per perseguire le violenze sessuali compiute ai danni dei minori; i fedeli neppure a parlarne, non si preoccupano affatto di quanto la Chiesa stabilisce. Dello Stato a pochi importa, molti entrano ed escono, altri osservano affascinati, molti guardano con pregiudizio ma di tutto ciò che governa l’ordinamento stesso non importa a nessuno. Eppure, Francesco ha legiferato molto ma, a differenza dei predecessori, ha sempre utilizzato mezzi che, certamente sono nella sua disponibilità, ma fanno comprendere la natura dell’atto stesso. La maggior parte delle modifiche introdotte nell’ordinamento canonico sono state comunicate, dalla sera alla mattina, con un motu proprio. La maggior parte delle volte, l’organo previsto per consigliare il Papa sulle questioni normative non è stato consultato e Francesco ha disposto a suo gusto. Molti diranno: è il Papa. Certo, ma è lo stesso Papa che parla di sinodalità, collegialità, comunione e condivisione. Quando si tratta di questioni così importanti per la vita della Chiesa bisogna applicare più che mai questi principi. Soprattutto se non si è competenti in materia e Francesco non ha una formazione giuridica. Simili modo è accaduto per lo Stato. La Legge fondamentale emanata da Giovanni Paolo II prevede che, ordinariamente, l’attività legislativa venga svolta da una commissione cardinalizia. Una commissione che quindi decide collegialmente. Ovviamente è prevista la presentazione dei progetti al Pontefice stesso. Francesco, invece, ha scelto di utilizzare sempre e comunque il motu proprio come mezzo ordinario. Anche qui, quindi, ciò che dovrebbe essere straordinario è diventato ordinario. 

Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare è più che sentire. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare”

“Ci sono molte resistenze a superare l’immagine di una Chiesa rigidamente distinta tra capi e subalterni, tra chi insegna e chi deve imparare, dimenticando che a Dio piace ribaltare le posizioni: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1, 52), ha detto Maria”

Queste parole pronunciate dal Papa suonano però distanti dal termine “motu proprio” ovvero “di propria iniziativa”. Il motu proprio è un atto di sola ed esclusiva iniziativa del Pontefice, il quale sceglie di mettere mano ad una questione e lo fa.

Nel corso delle ultime udienze di questo processo si è sentito dire di tutto. Addirittura, qualcuno ha lamentato “l’inopportunità delle eccezioni delle difese”. Gli avvocati hanno però fatto il loro lavoro ed hanno contestato la violazione di numerose norme di procedura penale. Del resto, il buon andamento del processo è interesse primario di chi lo instaura, perché nel momento in cui tutto è fatto secondo la legge, secondo diritto, tutti si concentreranno sull’oggetto del procedimento. Se invece il processo è ingiusto, viene avviato male, procede ancor peggio e si insinua l’idea che vi siano altre logiche a guidarlo, naturalmente l’attenzione non sarà più sull’oggetto ma sul modus agendi di chi lo ha avviato. 

Ed infatti così è accaduto. Sembra essere tornata la dicitura canonistica del codice piano-benedettino in merito ad una tipologia di pene: le pene vendicative. Ovviamente nel vecchio codice non avevano il significato che si potrebbe pensare con una interpetazione letterale ma sono state eliminate nel nuovo codice proprio per non indurre in errore nessuno. Eppure qui ci ritroviamo ad affrontare un sistema che è stato completamente modificato, si badi bene “per il solo procedimento in esame”, e corre il rischio di voler giungere solo e soltanto ad infliggere una pena vendicativa. 

Scopo del processo penale nello SCV

Prima di parlare del procedimento però dobbiamo rispondere alla domanda principale: quale scopo ha (o dovrebbe avere) il processo penale nello Stato della Città del Vaticano? 

Scopo specifico del processo penale è quello di ottenere l’accertamento, mediante l’intervento del giudice, della Verità. Durante il dibattimento, quindi, è necessario verificare la fondatezza della pretesa punitiva derivante da un reato, fatta valere per lo Stato dal Promotore di Giustizia.

Ancor prima, quindi, è necessario chiarire qual è lo scopo della pena. L’apostolo Paolo rivendicava la potestà di infliggere sanzioni ai fedeli che commettevano delitti: «Per questo vi scrivo queste cose da lontano: per non dover, poi, di presenza, agire severamente con il potere che il Signore mi ha dato per edificare e non per distruggere» (2 Cor 13, 10).

Per edificare e non per distruggere. Da qui si evince che lo scopo della pena è quello di riparare lo scandalo, ristabilire la giustizia e fare emendare il reo (Can. 1341 CJC). Tutto il procedimento, anche quello vaticano, deve avere come fine ultimo la Salus Animarum.

Il contenuto del processo penale sarà dato, di conseguenza, dall’accertamento giurisdizionale delle condizioni che determinano, escludono o modificano la realizzabilità della pretesa punitiva dello Stato stesso.

Perciò il processo penale rimane doppiamente caratterizzato, quale mezzo persecutivo dell’interesse sociale (essenziale) di repressione della delinquenza, e quale mezzo di tutela dell’interesse individuale e sociale (correlativo) concernente la libertà. Il quale ultimo interesse ha natura pubblica anch’esso, perché, nello Stato della Città del Vaticano, le garanzie della libertà individuale sono elementi essenziali dalla costituzione politico-giuridica dello Stato stesso.

Pensiamo alle parole di Lumen Gentium 9:

Questo popolo messianico ha per capo Cristo «dato a morte per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione» (Rm 4,25), e che ora, dopo essersi acquistato un nome che è al di sopra di ogni altro nome, regna glorioso in cielo. Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr. Gv 13,34). E finalmente, ha per fine il regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento, quando comparirà Cristo, vita nostra (cfr. Col 3,4) e « anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio » (Rm 8,21).

Il Sommo Pontefice Paolo VI, nel 1969, disse, durante la solenne commemorazione del cinquantenario della promulgazione del Codex Iuris Canonici,

“(..) la Chiesa, essendo una comunità non solo spirituale, ma visibile, organica, gerarchica, sociale e ordinata, ha bisogno anche di una legge scritta e postula organi adatti che la promulgano e la fanno osservare, non tanto per mero esercizio di autorità, ma proprio per la tutela della essenza e della libertà sia degli enti morali, sia delle persone fisiche che compongono la Chiesa stessa”

Quando i due interessi che caratterizzano il processo penale vengano in conflitto fra loro e non vi è una norma di legge che fa espressamente prevalere l’uno sull’ altro, la prevalenza deve essere riconosciuta all’interesse relativo alla libertà individuale. Questo perché è naturalmente più conforme ai principi del diritto divino, in quanto il pericolo d’ingiusta lesione è più concreto e sensibile in relazione all’interesse individuale. Tenendo presente anche quella regola rinvenibile nel Digesto giustinianeo (D.50.17.125) in dubio pro reo.

I Rescripta

Si è molto discusso in merito ai Rescripta che il Sommo Pontefice ha firmato per permettere gli atti di indagine nel procedimento de quo. Tali atti non possono trovare accoglimento nell’ordinamento nonostante siano stati emessi dal Sovrano. Difatti, questi testi conservano il carattere di segretezza e di specialità, caratteristiche che collidono con i principi che guidano l’ordinamento vaticano. Parliamo del diritto naturale, del diritto divino che, con il diritto canonico, ispirano e guidano l’ordinamento e l’attività del legislatore. Scrivevano i padri interrogandosi sulle esigenze a cui avrebbe dovuto rispondere il Codex: “l’uso di questo potere non può essere arbitrario nella Chiesa, e ciò è proibito dal diritto naturale e dal diritto divino positivo e dallo stesso diritto ecclesiastico. I diritti di ogni fedele cristiano devono essere riconosciuti e tutelati, sia nel diritto positivo naturale o divino, sia in quelli che da essi derivano per la condizione sociale inerente che essi acquisiscono e possiedono nella Chiesa.

Quaestio eaque gravis in futuro Codice solvenda proponitur, videlicet, qua ratione iura personarum definienda tuendaque sint. Sane potestas una est eaque residet in Superiore sive Supremo sive inferiore, nempe in Romano Pontifice et in Episcopis diocesanis, in
respectivo ambitu completa. Quod unicuique, pro communitatis sibi assignatae servitio tota competat, unitatem firmat potestatis, eamque
pro pastorali cura subditorum admodum conferre nemo dubitabit. Verum tamen usus huius potestatis in Ecclesia arbitrarius esse non potest, idque iure naturali proibente atque iure divino positivo et ipso iure ecclesiastico. Unicuique christifidelium iura agnoscenda ac tuenda sunt, et quae in lege naturali vel divina positiva continentur, et quae ex illis congruenter derivantur ob insitam socialem conditionem quam in Ecclesia acquirunt et possident. Et quoniam non omnes eamdem functionem in Ecclesia habent, neque idem statutum omnibus convenit, merito proponitur ut in futuro Codice ob radicalem aequalitatem qua inter omnes christifideles vigere debet, tum ob humanam dignitatem tum ob receptum baptisma, statutum iuridicum omnibus commune condatur, antequam iura et officia recenseantur quae ad diversas ecclesiasticas functiones pertinent.

Pontificia Commissio Codici Iuris Canonici, Recognoscendo Principia quae Codicis Iuris Canonici recognitionem dirigant, De tutela iurium personarum Communicationes nr. 2 A.D. MCMLXIX

L’attività del Sovrano quindi non può essere arbitraria ma deve rientrare nel solco tracciato. Tenendo ben presente qual è lo scopo del procedimento stesso e i beni che vi sono in gioco.

La pubblicazione è, inoltre, carattere necessario per far si che essa entri in vigore. Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, con la legge sulle fonti ha difatti disposto:


Le leggi entrano in vigore il settimo giorno successivo alla loro pubblicazione, salvo che le leggi stesse stabiliscano un diverso termine.

Le leggi indicate nell’art. 1 n. 2 sono depositate nell’apposito Archivio del Governatorato e pubblicate nello speciale supplemento degli Acta Apostolicae Sedis, eccetto che in casi particolari sia prescritta nella legge medesima una diversa forma di pubblicazione.

Legge LXXI sulle fonti del diritto

Ogni legge dello Stato ha un principio e un fine, nasce e muore come qualsiasi organismo o istituto sociale. Esiste da quando è sanzionata, promulgata e attuata; cessa per effetto dell’abrogazione. La prima e fondamentale norma da chiarire è che la legge della quale si chiede l’applicazione sia vigente nel tempo in cui il fatto è avvenuto. Ad esempio, se il fatto costituisce reato per la legge vigente nel tempo in cui si procede, ma non lo era per quella vigente al tempo in cui fu commesso è ovvio che l’incriminazione della legge odierna non possa legittimare l’azione penale rispetto a un fatto che non costituiva reato secondo la legge di quel tempo. Questo perché il reato deve essere preveduto nella legge: altrimenti, non essendovi obbligo nel cittadino di astenersi dal commettere un’azione, non potrebbe esservi diritto nello Stato di infliggere la pena, e quindi di sottoporre a procedimento chi si ritiene l’abbia commesso. Ciò porta a stabilire un canone fondamentale, elementare e universalmente riconosciuto, ovvero una legge posteriore non può rendere incriminabile un fatto che non era considerato reato da una legge anteriore vigente al tempo in cui il fatto avvenne, ossia il canone della non retroattività della legge. Quanto si è detto in merito alla legge penale va ripetuto anche in riferimento alle condizioni che rendano perseguibile oppure no il reo, ovvero la legge processual penale.

Non è corretto neppure il richiamo che viene fatto al Can. 331 CJC e anche ai seguenti. Come già ho avuto modo di chiarire, è assolutamente impensabile che tutto quanto riguarda la potesta del Pontefice sulla sfera spirituale venga equiparato a quella temporale. Come il principio Prima Sedes a nemine iudicatur non può essere applicato al Sommo Pontefice nella sua veste di legislatore statale, allo stesso modo non si può ritenere che quella “potesta ordinaria suprema” si riferisca al Sovrano dello Stato della Città del Vaticano. Infine, come già detto, “il libero esercizio” non può essere comunque, anche nella suo ufficio di Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale, arbitrario. Il fatto che poi questi Canoni non siano attinenti lo si evince proprio dai seguenti, ovvero dal Can. 333 ove si dice che non vi è possibilità di appello o ricorso contro le sentenze del Romano Pontefice. È chiaro quindi che ciò vale nell’ordinamento canonico e non in quello vaticano perchè in quest’ultimo il Pontefice non emette sentenze “inappellabili”.

Basterebbero queste precisazioni per chiudere la discussione ma ritengo altresì necessaria un’altra precisazione. Sia l’organo inquirente sia quello giudicante hanno voluto dare una interpretazione ampia dei Rescripta, ovvero si è ritenuto di estenderli a tutti i procedimenti che si sono collegati a quello per cui erano stati in principio emessi. Ebbene, senza neppure scomodare le norme di legge che prevedono l’interpretazione stretta per quelle leggi che restringono il libero esercizio dei diritti, se il Pontefice ha scelto di specificare addirittura il numero del procedimento penale significa che a quello specifico voleva riferirsi e non ad altri. Peraltro, il fatto che venga istituto un trattamento particolare solo e soltanto per questo procedimento è una questione che fa venire i brividi. Invito i più curiosi ad andare in Archivio a leggere gli atti del processo a Galileo Galilei. Assicuro che è stato un processo molto più corretto giuridicamente.

I poteri del Promotore di giustizia

Funzione caratteristica del Promotore di Giustizia è quella di far valere la pretesa punitiva dello Stato. Ciò non toglie però che il PdG genericamente incaricato di vegliare a che le leggi siano osservate, possa agire nel processo penale anche per interessi diversi da quelli inerenti alla pubblica accusa, quale rappresentante e tutore della legge. Si pensi ad esempio all’intervento in favore di minorenni o altri incapaci offesi dal reato (art. 64 c.p.p.).

L’azione penale, portata avanti dal PdG, implica un’attività inquirente (di polizia giudiziaria, e istruttoria), un’altra di persecuzione processuale (requirente), e un’ attività volta a far rispettare le decisioni prese dal giudice (esecutiva). La funzione, che il Promotore di Giustizia svolge in ordine all’azione penale, si inizia col promovimento di essa, la quale spetta di regola al PdG. medesimo (art. 1 c.p.p.).

Ricevuta la notizia del reato (denuncia, querela, ecc.), ove dalle prime indagini l’accusa risulti sufficientemente fondata, il PdG promuove I’ azione penale: cioè investe il giudice dell’azione stessa, richiedendo il relativo procedimento. Se, invece, ritiene che l’accusa sia infondata, così da non potersi promuovere l’azione penale, richiede al giudice istruttore di pronunciarsi con decreto il non doversi procedere (art. 179. I cap., c. p. p.). 

Nell’istruzione formale il promovimento dell’azione penale avviene mediante la richiesta di istruzione, che il PdG fa al giudice istruttore (art. 179 I p.); nel procedimento per citazione diretta l’azione penale è promossa dopo l’eventuale istruzione sommaria, mediante la richiesta del decreto di citazione. Per quei reati che erano di competenza della Corte d’assise ed oggi, nello S.C.V., vengono giudicati dal Tribunale di prima istanza, l’azione penale è promossa mediante l’atto di accusa (art. 179, 287 c.p.p.). Nel procedimento per citazione direttissima l’azione penale è promossa dal Promotore di Giustizia mediante la richiesta di citazione per l’udienza del giorno successivo, o mediante l’immediata presentazione all’udienza dell’arrestato (art. 290 c.p.p.).

Il Promotore di Giustizia ha il dovere di rimuovere ogni ostacolo alla Verità e deve favorire la pronuncia di una decisione definitiva e irrevocabile del giudice sull’azione stessa.

Il Promotore di Giustizia ha quindi il diritto di intervenire in tutti gli atti processuali, tranne alle deliberazioni del giudice. 

Al Promotore di Giustizia spettano poi anche funzioni esecutive, riguardanti la procedura intermedia o la sentenza definitiva, rispetto alle quali il PdG stesso appare come organo ausiliare del giudice. In ordine alla procedura intermedia, il PdG cura l’esecuzione, cioè fa eseguire, le ordinanze e i decreti del giudice. Il Giudice Unico, invece, procede direttamente all’esecuzione dei propri atti. Il codice dispone «Il Promotore di Giustizia promuove l’esecuzione delle condanne penali pronunciate dalla corte o dal tribunale a cui rispettivamente è addetto….. Ciascun Giudice Unico (in funzione di PdG) fa eseguire i decreti, le ordinanze, le sentenze da lui pronunciate» (art. 556 c. p. p. e Legge n. LII del 10 gennaio 1983).

La funzione esecutiva del PdG si esplica col promuovere l’esecuzione degli atti del giudice, mentre le materialità dell’esecuzione sono attuate dal Corpo della Gendarmeria dello Stato della Città del Vaticano, tranne per ciò che concerne le attribuzioni dei cancellieri per la riscossione delle pene pecuniarie.

Tutto quanto sopra precisato serve a specificare quali sono i doveri del PdG e l’ambito nel quale può e deve muoversi. Il codice a riguardo è molto chiaro: il Promotore di Giustizia deposita gli atti (355 c.p.p.). Non una parte degli atti. Conoscendo poi la natura del procedimento stesso, come abbiamo visto in precedenza, non può sorgere alcun dubbio. Se il procedimento è la ricerca della Verità, ovvero un “disvelamento”, ἀλήθεια, non si può pensare che questa ricerca avvenga in modo parziale. Tutto deve essere posto nella disponibilità del giudice e delle parti e, insieme, si deve giungere all’accertamento della Verità.

Non ritengo di aver detto tutto anche sull’ultima ordinanza emessa dal tribunale e sicuramente ci sarà modo di approfondire ancora queste tematiche. Ritengo doveroso però sottolineare come gli errori commessi sono chiaramente riconducibili ad una ignoranza dell’ordinamento che non può trovare sanatoria alcuna se non lo studio approfondito. Non ritengo ammissibile che dei soggetti vengano giudicati da persone che non hanno chiaro né cosa sia lo Stato della Città del Vaticano, né cosa sia l’ordinamento canonico e neppure quello vaticano. Non è pensabile che qualcuno ritenga di poter imparare il funzionamento in corso di causa oppure in breve tempo. Il sistema procedural penale dello Stato della Città del Vaticano è ancor più complesso perchè vede due ordinamenti fondersi fra loro ed uno è la ricchezza dell’altro. Se però non si comprende come questi due si arricchiscano, il rischio è quello di emettere provvedimenti che sono contrari all’ordinamento stesso ed affermare tesi che sono risibili, penso all’arresto compiuto su mandato del vescovo diocesano.

Resto sempre più convinto che il procedimento, come già ho detto in principio, deve essere caratterizzato da garanzie che possano poi garantire lo Stato stesso nel momento in cui emette la sentenza. Diversamente, lo stato più piccolo del mondo, il quale ha natura particolarissima, non sarà più credibile quando nei discorsi, nelle esortazioni o altri documenti si batterà per il rispetto dei diritti umani fondamentali. Sono ridondanti quelle affermazioni ove si specifica “l’ordinamento vaticano rispetta i diritti umani”. Certamente! Anche l’ordinamento italiano li rispetta, il problema è l’applicazione concreta. Come già ho detto in un altro appuntamento di Parole e Pensieri, il problema non è l’ordinamento ma chi oggi sta erroneamente applicando le norme. Chiudendo questa mia riflessione, leggendo pagina 17 dell’ordinanza del Tribunale rinvengo una figura a noi sconosciuta, ovvero il pubblico ministero. Non ho idea di cosa sia, magari il Tribunale ce lo spiegherà in una prossima ordinanza.

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