Vatican and canon law

Pro Iure patrio stamus

Pensieri e parole

A seguito della promulgazione del nuovo Motu Proprio “Competentias quasdam decerneredel Sommo Pontefice Francesco, è necessaria una riflessione in merito alle modifiche apportate al Codice di Diritto Canonico e al Codice dei Canoni delle Chiese Orientali. Il Santo Padre ha scelto di toccare alcune materie particolarmente delicate quali: la formazione presbiterale, i diritti dei religiosi e l’incardinazione presbiterale.

Le norme sull’incardinazione e l’escardinazione vanno riviste in modo che questo antichissimo istituto, pur rimanendo in vigore, sia però più rispondente ai bisogni pastorali di oggi. E lì dove ciò sia reso necessario da motivi apostolici, si faciliti non solo una distribuzione funzionale dei presbiteri, ma anche l’attuazione di peculiari iniziative pastorali in favore di diversi gruppi sociali in certe regioni o nazioni o addirittura continenti. A questo scopo potrà essere utile la creazione di seminari internazionali, peculiari diocesi o prelature personali, e altre istituzioni del genere, cui potranno essere ascritti o incardinati dei presbiteri per il bene di tutta la Chiesa, secondo norme da stabilirsi per ognuna di queste istituzioni, e rispettando sempre i diritti degli ordinari del luogo.

Presbyterorum ordinis, 10 

L’intervento normativo odierno del Sommo Pontefice sul codice di diritto canonico si basa sulla richiesta dei padri conciliari. Il decreto Presbyterorum ordinis, difatti, poneva già il problema delle norme sull’incardinazione dei presbiteri. Giovanni Paolo II tentò di adattare questo istituto alle esigenze del tempo con il nuovo codice di diritto canonico, ora Francesco, con il motu proprio “Competentias quasdam decernere”, inserisce nel codice alcune peculiarità che nella pratica si erano già rese necessarie. 

L’incardinazione

L’incardinazione nasce con una preoccupazione essenzialmente pastorale, ossia al fine di concretare il servizio ministeriale ad una Chiesa. Si tratta di uno degli istituti più antichi dell’organizzazione ecclesiastica. Negli anni, già nel codice piano-benedettino, il concetto d’incardinazione ha piano piano perduto il suo originario significato pastorale con l’accentuarsi del suo carattere disciplinare ed il suo trasformarsi in un vincolo di soggezione ad una diocesi, ovvero ad un territorio, ed in uno strumento di vigilanza e di controllo. 

Il Concilio Ecumenico Vaticano Il ha segnato un passaggio fondamentale, favorendo una lettura dell’istituto dell’incardinazione che, senza disconoscerne gli obiettivi disciplinari, pure si poneva l’obiettivo di restituire all’istituto il suo originario senso pastorale e di servizio ministeriale.  

Tutti i sacerdoti, sia diocesani che religiosi, partecipano in unione col vescovo, all’unico sacerdozio di Cristo e lo esercitano con lui; pertanto essi sono costituiti provvidenziali cooperatori dell’ordine episcopale. Nell’esercizio del sacro ministero il ruolo principale spetta ai sacerdoti diocesani, perché, essendo essi incardinati o addetti ad una Chiesa particolare, si consacrano tutti al suo servizio, per la cura spirituale di una porzione del gregge del Signore. Perciò essi costituiscono un solo presbiterio ed una sola famiglia, di cui il vescovo è come il padre. Questi, per poter meglio e più giustamente distribuire i sacri ministeri tra i suoi sacerdoti, deve poter godere della necessaria libertà nel conferire gli uffici e i benefici; ciò comporta la soppressione dei diritti e dei privilegi che in qualsiasi modo limitino tale libertà

Le relazioni tra il vescovo e i sacerdoti diocesani devono poggiare principalmente sulla base di una caritàsoprannaturale, affinché l’unità di intenti tra i sacerdoti e il vescovo renda più fruttuosa la loro azione pastorale. A tale scopo, perché se ne avvantaggi sempre più il servizio delle anime, il vescovo chiami i sacerdoti a colloquio, anche in comune con altri, per trattare questioni pastorali; e ciò non solo occasionalmente, ma, per quanto è possibile, a date fisse. 

Inoltre tutti i sacerdoti diocesani devono essere uniti tra di loro e sentirsi corresponsabili del bene spirituale di tutta la diocesi. Ricordando altresì che i beni materiali, da loro acquisiti nell’esercizio del loro ufficio ecclesiastico, sono legati al loro sacro ministero, vengano in generoso soccorso delle necessità materiali della diocesi, secondo le disposizioni del vescovo e in misura delle loro possibilità.

Sono le parole del decreto Christus Dominus sulla missione pastorale dei vescovi nella Chiesa. Vi sono state delle ragioni pastorali a spingere nella direzione di chiedere che l’istituto dell’incardinazione si adattasse alle esigenze di una migliore distribuzione del clero, di una maggiore mobilità del sacerdote, della creazione di strutture pastorali più flessibili. 

Vi è stato, altresì, un approfondimento teologico di quella che è la missione del sacerdote a segnare una chiara svolta in questo senso. Del resto, nel Concilio si è proclamata l’universalità della missione sacerdotale e la sollecitudine per tutte le Chiese connessa alla ricezione del sacramento dell’Ordine. Ma una tale destinazione universale rimarrebbe un utopico auspicio se non si concretasse attraverso l’incardinazione. Pertanto sono necessarie le norme adottate. Bisogna sottolineare che non si tratta di un semplice vincolo di soggezione ad un vescovo, ma dell’incorporazione ad una Chiesa particolare al fine di servirla e, attraverso di questa, di servire la Chiesa universale; inoltre, non si tratta di un vincolo con strutture esclusivamente territoriali, ma anche personali e infine, benché un tale vincolo sia tendenzialmente stabile, pure non necessariamente deve avere tale carattere in termini assoluti e perpetui così come nel codice piano-benedettino; sarà quindi caratterizzato dalla flessibilità e dalla mobilità richieste dalle esigenze pastorali, sicché diventa più facile l’escardinazione e si delinea la nuova figura dell’aggregazione.

Il codice sancisce l’assoluta necessità dell’incardinazione, sino al punto di non ammettere in nessun modo chierici girovaghi o acefali. Rilevanti sono le novità apportate dalla norma riguardo alle strutture atte ad incardinare chierici; tutto ciò in linea con la maggiore funzionalità delle strutture pastorali favorita dalla legislazione vigente. 

Attualmente l’incardinazione può realizzarsi – secondo il tenore letterale del Can. 265 – in due grandi tipi di strutture: 

a) in strutture gerarchiche, ossia nella Chiesa particolare a norma dei Cann. 368 e 372, e nelle prelature personali a norma dei Cann. 294-297; 

b) in entità di natura non gerarchica, ma che pure godono della facoltà di incardinare, come nel caso degli Istituti di Vita Consacrata, delle Società di Vita Apostolica o di Associazioni Pubbliche Clericali. 

La novità introdotta dal Pontefice, ovvero la possibilità di incardinarsi anche in associazioni pubbliche clericali, nasce dalla volontà di rendere ordinaria una facoltà che era sinora straordinaria e non normata. Difatti, la Congregazione per il Clero ha concesso negli anni ad alcune associazioni pubbliche clericali il privilegio di poter incardinare i membri che ne facevano richiesta. 

I seminari

L’esistenza di seminari interdiocesani è stata già prevista dal Concilio di Trento, quando si è attribuita al concilio provinciale o al metropolita la competenza ad istituirli. I Cann. 1354 § 3 e 1357 § 4 del codice piano-benedettino, di contro, hanno attribuito detta competenza all’autorità Apostolica, e per il governo e l’amministrazione di detti seminari si è rimandato a norme emanate dalla Santa Sede. Con il motu proprio “Competentias quasdam decernere il Santo Padre ha disposto che tali realtà debbono trovare solo la conferma della Santa Sede e non più l’approvazione. Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha affrontato questo tema con il decreto, già citato in precedenza, Optatam totius al numero 7 e ha previsto due diversi tipi di seminari interdiocesani: quelli comuni a diverse diocesi e quelli istituiti per tutta una regione o una nazione. Benché nei lavori iniziali di revisione siano stati seguiti altri criteri, alla fine si era fissato un criterio comune per entrambi i tipi di seminari interdiocesani: possono essere istituiti sia dalla conferenza episcopale sia dagli ordinari a seconda dei casi. In entrambe le ipotesi, tanto l’erezione che gli statuti dai quali sono retti dovevano essere approvate dalla Sede Apostolica. Oggi il Sommo Pontefice Francesco ha disposto che sarà sufficiente una conferma e non più una approvazione. Questa novità è introdotta nel nuovo Can. 237 § 2. 

Resta fermo quanto disposto nel nuovo art. 94 § 3 della Costituzioni Apostolica Pastor Bonus, così modificato col motu proprio Ministrorum Institutio, del Sommo Pontefice Benedetto XVI, ove si stabilisce che la Congregazione per il Clero: “Vigila attentamente perché la convivenza ed il governo dei seminari rispondano pienamente alle esigenze dell’educazione sacerdotale ed i superiori e docenti contribuiscano, quanto più è possibile, con l’esempio della vita e la retta dottrina alla formazione della personalità dei ministri sacri”. 

Questa scelta non può essere vista come una disattenzione a realtà particolarmente importanti e delicate quali le strutture formative. Le conferenze episcopali e gli stessi vescovi diocesano sono chiamati a prendere decisioni molto importanti sulla formazione presbiterale. Oggi vi sono diversi fattori che influiscono sui candidati al presbiterato, partendo dall’esiguità del numero fino ad arrivare ad una visione del sacerdozio troppo mondana. Gli eventi storici che la Chiesa sta vivendo ci chiamano però ad un esame di coscienza e a prendere in seria considerazione il percorso di formazione. I numerosi casi di abusi sessuali sui minori fanno emergere un gap importante all’interno di queste strutture. Troppo spesso si è tralasciata la formazione umana e affettiva dei giovani che entrano in seminario a diciotto anni e si ritrovano in una struttura che li porta a castrare ogni emozione o sentimento. Realtà delicate nelle quali emerge spesso il problema degli abusi spirituali e psicologici posti in essere da formatori impreparati, i quali hanno un narcisismo smisurato ed alcune idee del sacerdozio del tutto distanti dall’insegnamento della Chiesa Cattolica. Questo comporta un vero e proprio problema per il candidato, il quale, piuttosto che aprirsi e mettersi in gioco verso una verifica ed una maturazione, si chiude e diviene rigido. Questa tappa importante del sacerdozio diviene così preludio di quanto poi possiamo leggere sui giornali. Già il Santo Padre Benedetto XVI richiamava, parlando della pedofilia, l’attenzione dei formatori e dei vescovi, proprio sui seminari.  

Questa modifica normativa, molto importante, chiama quindi i vescovi a riflettere e giungere ad una comune visione del presbiterato. Oggi, purtroppo, diversi vescovi non sono concordi nella definizione del prete. Alcune conferenze episcopali sono completamente divise su questo. Difatti, alcuni vescovi scelgono di aprire il seminario nella propria diocesi, non per promuovere vocazioni, ma piuttosto per procedere ad una formazione secondo i propri schemi. Questo è pericoloso perché il sacerdote non è chiamato a vivere il proprio ministero solo e soltanto nel proprio territorio ma è offerto per la Chiesa universale. Per promuovere anche l’unità del presbiterio, non è pensabile trovare diocesi che propongono un ideale di sacerdozio ed altre che ne propongono una totalmente opposta.

Oggi è necessario iniziare a valutare l’esigenza dei candidati al confronto con uno psicoterapeuta che sia slegato dalla struttura formativa. Nel proprio cammino di maturazione, il seminarista è chiamato a crescere prima umanamente e poi spiritualmente. Molto spesso però si ritrovano ad affrontare non solo lo stigma sociale che è comune a tutti in riferimento alla figura professionale dello psicologo ma anche quello ecclesiale. Oggi il candidato viene inviato allo psicologo, rigorosamente scelto dal rettore del seminario, solo e soltanto se vi è un sospetto di “tendenza omosessuale”. Questo non è più accettabile. In questo modo si favorisce una repressione che rischia di emergere poi durante il ministero e divenire, non solo psicologicamente, deleteria. Sarà quindi utile un cammino comune, almeno a livello nazionale, che porti a scegliere un indirizzo formativo per favorire la crescita umana e spirituale dei candidati agli ordini sacri. Il popolo di Dio sente la necessità di avere pastori sani ed equilibrati, dei quali non avere timore ma piena fiducia.

Gli istituti e i monasteri sui Iuris

Il Sommo Pontefice, con il motu proprio odierno ha scelto di modificare quanto previsto dal Codice in merito alla dimissione dei religiosi.  A parte l’espulsione automatica di cui al c. 694, e l’espulsione urgente dalla casa di cui al c. 703, gli altri due procedimenti si svolgono in due fasi distinte. Il Papa ha modificato la seconda fase che fra poco analizzeremo. 

Nella prima fase, l’autorità competente – con o senza il proprio consiglio, a seconda dei casi – è il superiore maggiore, il quale dovrà agire in modo diverso a seconda che si tratti dell’ipotesi prevista al Can. 695, o dell’espulsione per le cause indicate al Can. 696. Nel primo caso, l’azione del superiore mira a dare dimostrazione del fatto delittuoso e della sua imputabilità; nel secondo (Can. 697), il superiore maggiore

con il proprio consiglio – mira non solo a dimostrare i fatti, la loro gravità e l’imputabilità, ma anche a provare satisil grado d’incorreggibilità, attraverso lo strumento delle ammonizioni canoniche. 

Nella seconda fase, quella modificata da Francesco, la causa è istruita, a norma del Can. 699, dal moderatore supremo assieme al proprio consiglio. Giovanni Paolo II è entrato nel dettaglio di tutte le misure, sottomettendo il procedimento ad una serie di controlli di validità, al fine di meglio garantire i diritti del religioso in una questione di così grande importanza per la sua vita.

In effetti, la validità del decreto di espulsione dipende, ancor oggi, da tutti questi requisiti:

  1. dal fatto che il moderatore supremo agisca assieme al proprio consiglio; 
  2. dal fatto che il consiglio sia composto da almeno quattro membri, dovendo la sua azione essere collegiale; 
  3. dal fatto che, tanto la deliberazione quanto la decisione ultima, siano prese collegialmente e per votazione segreta; 
  4. dal fatto che il decreto d’espulsione sia motivato in iure et in facto, almeno sommariamente;
  5. dal fatto che nel decreto si faccia menzione del diritto dell’espulso di ricorrere all’autorità competente;

Il Santo Padre Giovanni Paolo II aveva disposto una ulteriore garanzia, ovvero che il decreto d’espulsione non producesse effetti sino a quando non fosse stato confermato dalla Santa Sede o dal vescovo diocesano, a seconda della natura dell’istituto. Oggi questa previsione è stata eliminata e pertanto il decreto ha vigore nel momento in cui viene notificato all’interessato.

Durante i lavori preparatori del Codice, l’esigenza di conferma da parte della Santa Sede, ha costituito un tema assai dibattuto. Di fatto, nello schema del 1930 non vi era menzione di una tale esigenza, e la ragione fondamentale che si invocava era quella secondo cui, qualora si fosse esigita la conferma della Santa Sede, sarebbe stato possibile indirizzare l’eventuale ricorso unicamente alla Segnatura apostolica, e non circa meritum causae, ma solo circa violationem legis. Giovanni Paolo II, alla fine ha optato per la necessità della conferma, ritenendo di poter così tutelare nel modo migliore la serietà del procedimento ed evitare ogni possibile arbitrarietà. 

In questa risposta autentica del 17 Maggio 1986 della Pontificia Commissio Codici Iuris Canonici Authentice Interpretando si affermano due cose: che il decreto di dimissione deve essere notificato dopo la conferma della Santa Sede, e che l’autorità competente a ricevere il ricorso sospensivo è la Sacra Congregazione per i Religiosi e gli Istituti secolari (oggi Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica) non già la Segnatura apostolica.

Ulteriore garanzia è data con l’effetto sospensivo dell’eventuale ricorso presentato dinanzi all’autorità competente visto che fino a quando sia pendente detto ricorso, il decreto di espulsione non produce effetti. 

Tali modifiche hanno il pregio di favorire certamente la velocità con cui si procede alla dimissione di un soggetto dal monastero o istituto ma rischiano di limitare i diritti degli interessati. La modifica al Can. 700 CJC elimina quel controllo esterno che può essere assolutamente necessario in realtà particolari quali gli istituti di vita consacrata. Particolare attenzione bisogna volgere ai monasteri sui iuris, i quali già godono di una particolare autonomia che è certamente una ricchezza ma che rischia di divenire un’arma, in particolare quando si tratta di dimettere i propri membri. All’interno dei monasteri spesso vi sono dinamiche di abuso psicologico e spirituale che portano l’abate (il priore) o l’abadessa a creare un gruppo di “fedelissimi” che porta avanti la propria visione di comunità e ad estromettere, escludere o addirittura dimettere, tutti coloro che non accettano di buon grado questi personalismi. Un controllo esterno, come quello del Vescovo diocesano, come era previsto dal Can. 699 § 2 è assolutamente utile, seppur non sempre l’ordinario riesca a comprendere lo stato di decomposizione in cui si trova quella comunità. Esprime bene queste mie preoccupazioni il Rev.do Dom Dysmas de Lassus, O.Cart. nel suo libro Risques et dérives de la vie religieuse.

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